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29 Marzo 2011Qui di seguito un’intervista realizzata da Antonella Marchisella sulla sofferenza che si crea in alcune tipologie di relazioni e su quanto è utile porsi nella condizione di osservatori esterni, rispetto a ciò che si sta vivendo, può essere d’aiuto nell’elaborare il dolore.
Davide Algeri – Psicologo Milano
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Indice contenuti
Soffri per amore? Come uscirne
Troppo spesso innamorarsi vuol dire soffrire: ma l’amore deve per forza implicare il dolore? Ne abbiamo parlato con lo psicologo Davide Algeri che ci ha fornito un punto di vista insolito.
A cura di Antonella Marchisella
Innamorarsi è di per sé una condizione piacevole, ma spesso vuol dire anche ritrovarsi a soffrire come in una vera e propria gabbia, quando il pensiero fisso “dell’altro” non ci abbandona mai e continuiamo a tormentarci. C’è da dire che spesso quello che crediamo essere un innamoramento è solo il frutto di impressioni, situazioni infantili mal risolte che ci portano da adulti a legami affettivi distorti. Non è raro scambiare un attaccamento nevrotico per amore.
Del resto, provando a sbirciare le definizioni di “innamoramento” su un certo numero di dizionari, nessuno di questi riporta un significato esaustivamente comprensibile dello stato di “innamorato”, generalmente riportato come “chi è preso da amore per qualcuno. Chi ispira amore, chi manifesta amore, chi è preso da un sentimento d’ amore per qualcuno” e questa vaghezza già la dice lunga sul fatto che non ne sappiamo granché sul nostro stato di “innamorati”.
Da qui, il passo al cosiddetto “pensiero fisso” è breve. Il pensiero fisso “dell’altro” ci fa sentire “ingabbiati” e in questi casi per definire lo stato in cui si trova la persona che sta soffrendo, potremmo usare la “metafora del carcerato”.
Per saperne di più abbiamo intervistato lo psicologo e psicoterapeuta Davide Algeri, che ha affermato: “E’ come se si stesse rinchiusi in una condizione di prigionia, dove l’altro tiene in ostaggio il proprio cuore e il proprio pensiero, non concedendo alcuna via di fuga. ll pensiero è sempre presente, giorno dopo giorno, fa male e più si cerca in tutti i modi di scacciarlo, di dimenticare, di distrarsi, di non pensarci, più questo torna alla mente, in modo invasivo e fastidioso. Così il “prigioniero”, per quanto cercherà di liberarsi, ribellandosi, urlando, alla fine rimarrà chiuso nella sua “cella”, dove ogni sforzo di “rompere le catene” o di “piegare le sbarre” per uscire, risulterà vano, contribuendo solo a peggiorare e a confermare altresì la propria condizione” .
Dott. Algeri, come si può uscire da questa condizione?
Spesso chi ha un problema non può risolverlo, se cerca di farlo rimanendo sullo stesso piano del problema e per questo, in questi casi, è utile riuscire a vederlo da fuori, anche con l’aiuto di un terapeuta. Possiamo fare l’esempio dell’incubo: durante un incubo si può correre, strillare, cadere, nascondersi, ma nessun cambiamento da un comportamento ad un altro può por fine l’incubo stesso (cambiamento1); l’unico modo di uscire fuori da esso è destarsi (cambiamento2). L’essere desti però non fa più parte del sogno e implica un cambiamento ad uno stato completamente diverso.
Come vediamo, il cambiamento1 ci fa restare sullo stesso piano del problema e non porta alcuna risoluzione, mentre il cambiamento2 ci fa uscire fuori dal problema. Ritornando al problema precedente, nel quale la persona si ritrova bloccata in questa condizione di prigionia, l’unica soluzione consiste anche qui nell’uscire fuori, nel porsi in una posizione esterna al problema.
Come possiamo guardarci dall’esterno?
Per far ciò diventa utile provare letteralmente a guardarsi nella propria condizione di prigioniero, ogni giorno per un tempo definito, e rassegnandosi al proprio destino di ergastolani, per tutta la vita, almeno fino a prova contraria. Guardarsi dall’esterno, aiuterà infatti a prendere le distanze e a rivalutare la propria posizione all’interno di questa dinamica, riuscendo a “rompere la catena” e ad aprire la cella nella quale fino a quel momento eravamo rimasti bloccati.
Fonte: GirlPower
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