Quando risulta difficile la comprensione di un testo scritto
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La violenza nella comunicazione
Ci sono tante forme di violenza, sia fisica, sia passiva. Quest’ultima è la più insidiosa perché provoca soprattutto ferite emotive, difficili da riconoscere o dimostrare, e altrettanto difficili da guarire. La violenza passiva, inoltre, genera rabbia nella vittima, che, nel lungo periodo, può ricorrere alla violenza fisica per ribellarsi o vendicarsi. Il clima culturale attuale è intriso di violenza perché essa viene veicolata principalmente dalla comunicazione. Anche quando non consideriamo violento il modo in cui parliamo, le nostre parole spesso feriscono o causano dolore agli altri e a noi stessi.
Citando Gandhi, «un cambiamento comincia con un cambiamento nel linguaggio e nella comunicazione» ed ecco, allora, che Marshall Rosenberg ci spiega come rendere non-violento il nostro modo di esprimerci con gli altri e con noi stessi.
Il potere delle parole
Le parole hanno un’importanza fondamentale perché con esse neghiamo le nostre responsabilità («Se tu mi ascoltassi io non alzerei la voce!»), attribuendo i nostri stati emotivi e le nostre azioni a forze impersonali («Tutto questo stress mi rende nervoso»), alla nostra salute («Ti ho risposto male perché non sto bene»), alle autorità e alla società («La gente impazzisce perché la società va a rotoli»), alle pulsioni incontrollabili («Non posso farci niente, è stato più forte di me») ecc.
Inoltre, attraverso le parole descriviamo gli altri dipingendoli in un modo ‘assoluto’, senza considerare che stiamo esprimendo soltanto un giudizio personale valido in quel particolare contento e momento: colleghi svogliati, compagni insensibili, amici egoisti ecc. ecc.. Le ‘etichette’ che attribuiamo agli altri fotografano la percezione del momento in cui avremmo bisogno di qualcosa dagli altri e tale bisogno resta insoddisfatto, ma, ciononostante, l’etichetta rimane, connotandosi come una caratteristica stabile della persona in questione.
La comunicazione non violenta o Comunicazione Empatica permette di utilizzare le parole per esprimerci in modo onesto e chiaro, dichiarando ciò che percepiamo, sentiamo e vogliamo, e prestando agli altri un’attenzione rispettosa ed empatica.
4 componenti della comunicazione non violenta
1. Osservare senza valutare
- Teoria: non significa abolire ogni giudizio, ma dare la precedenza alla descrizione dei fatti oggettivi, basandoci su osservazioni specifiche nel tempo e nel contesto.
- Pratica: evitiamo di generalizzare come quando diciamo «Non mi ascolti mai», ma preferiamo frasi più specifiche e oggettive come «Quando sei davanti alla tv ti estranei così tanto da non renderti conto che ti sto parlando».
2. Individuare ed esprimere i propri sentimenti
- Teoria: prendere consapevolezza di ciò che sentiamo ed esprimerlo. Ammettiamolo: è più semplice a dirsi che a farsi. Se in questo momento vi chiedessi, semplicemente, come state, la maggior parte di voi risponderebbe «bene» o «male», ma che cosa significa di preciso? Siete felici, entusiasti, soddisfatti, appagati? Oppure tristi, demotivati, scoraggiati, affranti? Ci sono centinaia, se non migliaia di vocaboli in grado di descrivere al meglio il nostro stato d’animo eppure ne usiamo meno di una decina ogni giorno. Inoltre, spesso pensiamo di esprimere un sentimento, mentre invece si tratta di un pensiero, un’opinione o la descrizione di fatti/eventi.
- Pratica: evitiamo di esprimere un giudizio ‘mascherato’ da sensazione come quando diciamo «Sento che non è giusto che mi tratti così» e preferiamo una frase come «Quando mi dici che non faccio mai niente per aiutarti mi sento demoralizzato». Evitiamo di distogliere l’attenzione dai sentimenti come quando diciamo «Sento che tu fai sempre quello che vuoi» e preferiamo dire «Mi sento impotente e avvilito quando prendi decisioni senza interpellarmi».
3. Assumersi la responsabilità dei propri sentimenti e riconoscere i bisogni che li provocano
- Teoria: ciò che gli altri dicono o fanno può essere uno stimolo, ma non è mai la causa dei nostri sentimenti. Ciò che proviamo dipende da come scegliamo di interpretare ciò che gli altri dicono e fanno, e dai nostri bisogni e aspettative del momento. Attribuire agli altri la responsabilità di quello che sentiamo è il meccanismo alla base del motivare le persone attraverso il senso di colpa. Pensate ad un genitore che dice al figlio: «Quando fai i capricci fai piangere la mamma e papà». Questa frase fa sentire in colpa il bambino e un eventuale modifica del comportamento è dovuta al semplice desiderio di evitare tale sgradevole sensazione.
- Pratica: evitiamo manipolazioni come quando diciamo «Se non mangi tutto la mamma è triste» o «Non ti importa di me perché non hai mai tempo» e, piuttosto, colleghiamo i nostri sentimenti con i nostri bisogni dicendo «Se non mangi tutto la mamma è triste perché vorrebbe che tu crescessi forte e sano» o «Mi sento sola perché avrei bisogno di maggiori occasioni di condivisione con te». In generale, le ‘parole magiche’ sono: «Mi sento… perché io…».
4. Avanzare richieste che possano arricchire
- Teoria: una volta che abbiamo preso consapevolezza della realtà osservabile, di ciò che sentiamo e di ciò di cui abbiamo bisogno, possiamo avanzare richieste specifiche per chiedere agli altri che compiano azioni in grado di soddisfare i nostri bisogni. Utilizziamo un linguaggio chiaro, positivo e concreto per ottimizzare le possibilità di ricevere una risposta positiva, ed eventualmente chiediamo un riscontro per essere certi di essere stati compresi.
- Pratica: evitiamo richieste formulate in negativo come quando diciamo «Vorrei che non ti comportassi più così», ma facciamo chiarezza (principalmente con noi stessi!) su ciò che vorremmo: «Preferirei che mi dicessi chiaramente che sei arrabbiata, invece di farmelo capire». Evitiamo espressioni vaghe come «Ho bisogno di aiuto» e diciamo che cosa ci farebbe stare meglio: «Ho avuto una brutta giornata e sono di pessimo umore, saresti disposto ad ascoltarmi e lasciarmi sfogare un po’?».
Con l’allenamento e l’esercizio, la comunicazione non violenta può sostituire i nostri vecchi schemi di reazione basati sulla difesa, sulla rinuncia o sull’attacco di fronte alla critica e al giudizio, permettendoci di minimizzare la resistenza e le reazioni violente. Questo modo di comunicare ci sollecita continuamente a portare l’attenzione su un piano diverso, non conflittuale, sul quale è più semplice raggiungere i risultati desiderati per se stessi e per gli altri, con un conseguente aumento di autostima e di benessere.
L’empatia: da noi stessi agli altri
La comunicazione non violenta ci permette di focalizzare con chiarezza i fatti ai quali reagiamo, le emozioni che proviamo in relazione ad essi e i nostri veri bisogni e ci aiuta a fare richiesta di ciò che potrebbe realmente arricchirci.
Il potenziale della comunicazione non violenta, in realtà, non si limita a questo ambito, ma si esprime anche nelle relazioni interpersonali, intese come scambi comunicativi. Gli stessi quattro step di base utilizzati per esprimere se stessi, infatti, possono essere applicati nella comunicazione per ascoltare ciò che gli altri osservano, ciò che sentono, ciò di cui hanno bisogno e ciò che realmente chiedono.
In altri termini, possiamo utilizzare l’empatia per svuotare la mente ed ascoltare con rispettosa comprensione ciò che gli altri provano. Questo ascolto, liberato da preconcetti e pregiudizi, permette di cogliere quella componente particolare che non può essere udita né capita razionalmente, ma che fa sempre parte delle interazioni umane.
Non-empatici per ‘programmazione’
Pur riconoscendo razionalmente l’importanza dell’attenzione autentica all’Altro, abbiamo imparato a rispondere alle richieste dirette o indirette come se avessimo il pilota automatico: diamo consigli, rassicuriamo, forniamo un parere o una soluzione, giustifichiamo il nostro comportamento o i nostri sentimenti… In questo modo ci sembra di salvare il mondo facendo tutto ciò che è in nostro potere, in realtà un proverbio buddista ribalta questa visione: «Non limitarti a FARE qualcosa. SII presente».
Quando gli altri si aprono con noi, spinti dal bisogno di ricevere comprensione empatica e noi rispondiamo con una rassicurazione o un consiglio per «aggiustarli» e farli stare meglio, essi spesso si sentono frustrati e incompresi.
Missione fallita. Che fare allora? Cominciamo ad evitare di dare consigli, di sollevare il morale, educare, consolare, sviare l’attenzione raccontando aneddoti, zittire, commiserare, interrogare, minimizzare, dare spiegazioni o correggere.
Comprendere il problema a livello intellettuale blocca il tipo di «presenza» che l’empatia richiede. Proviamo a procedere in senso inverso, invece, e ci ritroveremo a percorrere una strada in discesa: essere totalmente presenti all’altro e a quello che sta provando è l’ingrediente fondamentale dell’empatia.
Relazionarsi con empatia… In teoria e in pratica
- Ascoltare sentimenti e bisogni: ascoltiamo ciò di cui gli altri hanno bisogno, non ciò che pensano di noi.
- Teoria: abbandoniamo l’abitudine ad assumerci la responsabilità dei sentimenti degli altri e a ricevere i messaggi in modo personale. Lo facciamo anche quando ci arrabbiamo perché ci sentiamo o ci fanno sentire in colpa, altrimenti non proveremmo questa emozione!
- Pratica: evitiamo di basarci su supposizioni circa i sentimenti degli altri come quando pensiamo «non mi ha risposto al telefono perché ha di meglio da fare», ed evitiamo di fare riferimento a noi stessi come quando diciamo «non mi hai risposto perché sei stufo di me», ma proviamo ad indovinare i sentimenti e i bisogni dell’altro e a verificarli con il diretto interessato: «non mi hai risposto perché avevi bisogno di prenderti un po’ di spazio per te stesso?».
- Parafrasare per verificare: non diamo per scontato di capire sempre al volo.
- Teoria: dopo aver ascoltato, proviamo a chiedere un riscontro per essere sicuri di aver capito correttamente ed esprimiamo il tutto con parole nostre. Possiamo chiedere conferme su ciò che l’altro osserva, sui suoi sentimenti o sui bisogni che li generano, oppure sulle richieste avanzate. Non ci sono effetti collaterali, perché quando sbagliamo diamo all’altro la possibilità di correggerci e gli facciamo sentire il nostro interesse e la nostra attenzione.
- Pratica: evitiamo le forme generiche del tipo «come ti senti/cosa vuoi che faccia per te?» e sforziamoci di focalizzare il problema chiedendo «ti senti incompreso perché avresti voluto più apprezzamento per il tuo gesto?/vuoi che ti spieghi per quale motivo mi sono comportato in quel modo?».
- Prendersi tempo per capire: procedere con calma dà agli altri il tempo di sentirsi compresi.
- Teoria: aspettiamo che l’altro si sia espresso completamente prima di scapicollarci nella ricerca di una soluzione, così evitiamo di dare l’impressione di volerci liberare di lui o del suo problema. Continuiamo ad ascoltare con empatia finché non cogliamo un senso di sollievo o rilassamento nell’altra persona e/o fino a quando il flusso di parole non si interrompe.
- Pratica: evitiamo di dire la nostra come quando sentenziamo «secondo me è solo che non vi capite, ma in fondo vi volete ancora bene» e continuiamo invece a chiedere conferma dei sentimenti che stanno dietro alle parole dell’altro «sembri veramente dispiaciuta perché non trovi il modo di parlare con lui». Spesso le lamentele iniziali possono essere solo la punta dell’iceberg. Dando ascolto e attenzione ai sentimenti ad esse collegate è possibile far luce su emozioni ancora inespresse, ma collegate a quelle iniziali.
- Dare empatia a noi stessi per poter dare empatia agli altri: siamo esseri umani, ricordiamocelo ogni tanto…
- Teoria: quando ci capita di essere incapaci o restii a mostrarci empatici nonostante gli sforzi o i buoni propositi, significa che noi per primi abbiamo così tanta ‘fame’ di empatia da non poterne dare agli altri. Possiamo, allora, riconoscere apertamente che una nostra emozione ci impedisce di rispondere empaticamente, così l’altra persona può offrirci ciò di cui abbiamo bisogno. In alternativa, possiamo dare empatia a noi stessi, ‘urlare’ in modo non-violento o allontanarci.
- Pratica: evitiamo di sforzarci di essere ciò che non siamo e scegliamo di dare voce alla nostra momentanea difficoltà dicendo «mi rendo conto che il fastidio che provo adesso mi impedisce di ascoltarti veramente», oppure diamo empatia a noi stessi e a quello che stiamo vivendo, ammettendo «in effetti mi fa così male quello che mi ha detto che non mi importa di ascoltarlo ancora» oppure alziamo la voce per dire «ehi, adesso sono troppo arrabbiato per poter pensare anche a voi, ho bisogno di un po’ di pace!». Non funziona? Chiamate il time out e andate via, per tornare una volta che avrete un diverso stato d’animo.
Nell’applicare i punti precedenti, il tono di voce fa sempre la differenza: una parafrasi tecnicamente perfetta diventa inutile, se non controproducente, quando contiene indizi di critica o sarcasmo. Le persone reagiscono negativamente anche quando ci sentono «salire in cattedra» e fare i saputelli o quando il nostro unico interesse nell’applicazione della CNV è cambiare il comportamento dell’altro, cioè manipolare.
Un piacevole effetto collaterale che si verifica quando concentriamo la nostra attenzione sull’ascolto dei sentimenti e dei bisogni celati dietro al messaggio dell’interlocutore, è che tutte le critiche, gli attacchi e gli insulti che noi percepiamo svaniscono. Ci rendiamo conto, infatti, che dietro a tutti quei messaggi fastidiosi o dolorosi, ci sono solo persone con bisogni insoddisfatti che si rivolgono a noi affinché contribuiamo al loro benessere.
Approfondimenti
- Rosenberg M. R., Le parole sono finestre [oppure muri], Reggio Emilia, Edizioni Esserci, 2003.
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