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L’esperienza del dolore
Il dolore è un’esperienza che accomuna tutti gli esseri umani, ma definirlo sinteticamente e in modo esauriente è un’impresa davvero molto complessa.
Nel tempo, il dolore ha assunto un significato molto diverso a seconda delle epoche storiche, in quanto le influenze culturali e religiose giocano un ruolo centrale nella definizione dell’esperienza della sofferenza. Per molti secoli l’uomo ha pensato al dolore come a una punizione divina infertagli da Dio come modo per espiare i propri peccati, ma dalla fine del Medioevo la visione organicistica del dolore, in realtà già proposta da Aristotele, ha cominciato a prendere posizione.
In particolare, è nel 1850, con la nascita della fisiologia sperimentale, che si iniziano a sviluppare le prime teorie sul dolore; in particolar modo si sviluppano due pensieri contrapposti: alcuni autori propendono per la teoria della specificità, che vede il dolore come una forma specifica di sensibilità, con un proprio apparato sensitivo indipendente dagli altri, mentre altri studiosi sostengono la teoria dell’intensità, per cui ogni stimolo sensoriale può causare dolore nel momento in cui raggiunge una certa intensità.
È del 1965, invece, una delle teorie maggiormente accreditate circa il dolore: la teoria del Cancello proposta da Melzack e Wall, per cui, a livello delle corna dorsali del midollo spinale, esiste un cancello, cioè un meccanismo in grado di modulare (facilitare o inibire) la trasmissione delle informazioni dolorose dalla periferia al Sistema Nervoso Centrale; fattori come la memoria, l’attenzione e le emozioni possono aumentare o diminuire il passaggio dei segnali dolorosi, mediando la relazione tra danno fisco e dolore percepito.
Definizioni di dolore
Oltre all’influenza culturale, la stessa definizione di dolore risulta difficile perché esso è un concetto che comprende una realtà complessa e multidimensionale, costituito da diverse componenti, come quella affettiva, cognitiva e comportamentale. Dal punto di vista affettivo, emergono intense emozioni negative come ansia eccessiva, rabbia e paura, che giocano un ruolo importante nel compromettere la vita quotidiana e le relazioni interpersonali del soggetto.
In tale ambito, un’attenzione particolare deve essere rivolta alla depressione che, per molti autori, è l’altra faccia del dolore cronico: a ben vedere, infatti, i disturbi del sonno, l’alterazione dell’appetito e il ritiro dalle relazioni sociale sono i sintomi caratteristici di entrambi i disturbi.
Secondo l’approccio biologico, la relazione tra dolore cronico e la depressione può essere spiegato come l’espressione dello stesso substrato neurofisiologico.
Per il modello psicodinamico, invece, il dolore cronico può essere letto, al pari della depressione, come una difesa rispetto all’emergere di conflitti inconsci.
La componente cognitiva implica la dimensione dell’attenzione che viene rivolta verso il dolore, l’interpretazione, cioè il significato che il soggetto vi attribuisce, il coping, cioè le modalità di fronteggiarlo, le credenze e il locus of control, vale a dire l’attribuzione di causalità che può essere interna o, al contrario, esterna.
La componente comportamentale del dolore, infine, implica i modi di agire caratteristici della sintomatologia dolorosa, come le espressioni del volto sofferenti, i movimenti rallentati o zoppicanti, le richieste di aiuto, i pianti e le lamentele.
La difficoltà nel descrivere il dolore è dato anche dal fatto che il significato dell’esperienza dolorifica è costruita in maniera soggettiva dalla persona che ne soffre. Ne discende una difficoltà di valutazione, che può essere contenuta attraverso l’abilità del paziente di comunicare la propria sofferenza e, di contro, la capacità dell’operatore di riuscire a comprenderla.
Il trattamento multimodale del dolore cronico
Di fronte a un paziente con dolore cronico, l’esperienza consiglia che, dopo un primo momento di colloquio atto a raccogliere le generalità del soggetto, segue un’anamnesi di tipo algologico, riferito alle caratteristiche del dolore, come l’esordio, lo sviluppo e gli eventuali trattamenti effettuati.
È opportuno anche integrare il colloquio con un’anamnesi remota, con la descrizione di eventuali patologie pregresse o in corso, traumi ed interventi chirurgici, accompagnata dalla raccolta di informazioni circa le relazioni interpersonali del soggetto, sia di tipo familiare che extra-familiare.
Essendo un concetto multidimensionale, il dolore cronico implica un trattamento che considera il soggetto nella sua globalità, attraverso l’utilizzo di un approccio bio-psico-sociale: occorre, quindi, una visione integrata del dolore, che implica un analisi complessa e profonda.
È opportuno far riferimento a una prospettiva multimodale, cioè composta da diverse metodiche che si completano e si intrecciano tra loro. Il malato, infatti, non porta solo i sintomi, ma anche la sua storia personale: risiede qui la differenza fondamentale tra curare la malattia e prendersi cura del malato.
Trattamento farmacologico del dolore cronico
Il primo intervento che è opportuno agire con un soggetto sofferente è la somministrazione di farmaci, soprattutto quando il dolore è molto intenso e prolungato. A volte i medici possono prescrivere anche dei farmaci che dichiarano essere molto potenti, ma che in realtà sono soltanto sostanze, spesso a base di zucchero, prive di effetto farmacologico: grazie all’“effetto placebo” si ottiene ugualmente un effetto terapeutico sul paziente.
Ovviamente il presupposto fondamentale è la relazione creatasi tra il medico e il soggetto, ma anche altre caratteristiche relative alla sostanza, come il colore, la dimensione e il tipo di somministrazione.
Trattamento psicologico del dolore cronico
Insieme a un trattamento medico, è opportuno affiancare anche un trattamento psicologico, in quanto i sintomi fisici spesso sono un modo alternativo di comunicare il proprio disagio.
Terapia cognitivo comportamentale
Si può far ricorso a diversi approcci psicologici per il trattamento del dolore, di cui la terapia cognitivo-comportamentale è quella maggiormente impiegata: essa utilizza tecniche come la ristrutturazione cognitiva, l’addestramento nelle capacità di lotta al dolore, i metodi di rilassamento fisico e mentale, la terapia immaginativa, l’inoculazione dello stress e le autoasserzioni di adeguatezza al fine di ristrutturare l’esperienza dolorifica del soggetto.
L’obiettivo che questi tipi di interventi si propongono è quello insegnare ai pazienti, in un tempo ristretto, a gestire autonomamente i propri problemi, soprattutto il dolore cronico. La finalità, dunque, non consiste nell’eliminazione del dolore, ma fare in modo che il soggetto potrà disporre delle necessarie abilità per fronteggiarlo con maggiore efficacia.
Il messaggio fondamentale che deve essere ben chiaro al paziente è che la sua non è una posizione di impotenza e che il dolore non può, e non deve, controllare la sua vita.
Terapia psicoanalitica
L’obiettivo della terapia psicoanalitica, invece, si concentra sul mondo interno del soggetto: il terapeuta deve portare il soggetto a migliorare la capacità di gestione della propria vita emozionale, permettendogli di riconoscere le situazioni conflittuali o traumatiche che hanno causato la sua regressione nello sviluppo affettivo. Secondo questa prospettiva, infatti, risulta fondamentale tenere in considerazione le resistenze offerte dalla somatizzazione che, rendendo il corpo teatro di drammi emotivi non espressi a parole, permette alla mente di rimanere relativamente libera da conflitti e sofferenze psichiche.
Terapia di gruppo
Nella terapia di gruppo, lo scopo è far comprendere che il proprio disturbo ha sia una natura somatica, ma anche un’origine psichica, attraverso la condivisione dell’esperienza tra i membri del gruppo stesso. Il lavoro di gruppo è finalizzato alla ricerca di modalità di adattamento che permettono al soggetto una convivenza più serena con la propria malattia cronica, grazie al sostegno, all’incoraggiamento reciproco e al clima di fiducia che si instaura a partire dalla condivisione dello stesso tipo di esperienza fisica e alla comunicazione di essa agli altri membri.
Essa raccoglie in sé modelli di terapia psicodinamica, cognitiva e comportamentale, ma ciò che vengono esaltate sono le funzioni di supporto del gruppo e di identificazione tra pari che provocano e rinforzano l’instaurarsi di cambiamenti adattivi. La forza del gruppo, infatti, non deriva semplicemente dall’esserne spettatore, ma nel parteciparvi ed esserne coinvolto; nel gruppo si tende a costruire, con pazienza, il ponte tra il linguaggio del corpo e il linguaggio delle parole.
Terapia familiare
Un ulteriore terapia impiegata in questo ambito, infine, è la terapia familiare, il cui scopo è quello di far emergere le risorse e favorire la comunicazione funzionale tra i vai membri familiari, bloccando i possibili meccanismi di rinforzo negativo. Il focus è sull’hic et nunc, nel tentativo di comprendere le problematiche attuali che coinvolgono la famiglia, in questo focalizzandosi più sulla comunicazione che sull’introspezione.
Terapia ipnotica
Un paragrafo a parte merita l’utilizzo dell’ipnosi nella terapia del dolore, che solo da metà dagli anni ’50 è stata approvata come forma di analgesia chirurgica e di trattamento clinico del dolore acuto, cronico e oncologico. Essa non provoca la guarigione, ma permette una riassociazione delle esperienze del soggetto; è un modo per ristrutturare l’esperienza del dolore, abbassando il livello della componente emotiva negativa associata al dolore stesso.
Introdotto dal neurochirurgo James Braid nel 1843, il termine non indica una condizione di sonno artificiale, ma una situazione di maggior rilassatezza dove si è maggiormente vigili. L’attenzione è concentrata sul rapporto con l’ipnotizzatore e sui propri processi interni; la volontà del soggetto non è annullata, ma focalizzata su ciò che viene comunicato dall’ipnotista. La relazione privilegiata basata sulla comunicazione non verbale e le intense dinamiche affettive permettono di innescare il rapport, cioè quel clima di condivisione partecipata, di attenzione e di curiosità reciproca che si instaura tra paziente e ipnotista. Con l’ipnosi emerge una capacità mentale di tipo onirico, cioè non costretta a seguire solo i pattern di funzionamento logico-relazionale-induttivo solitamente impiegati.
Attraverso l’ipnosi il soggetto ha accesso a un livello diverso della coscienza ai circuiti fisiologici che di norma entrano in funzione in modo automatico, come reazione emozionale a uno stimolo stressogeno specifico; in questo modo si possono trovare soluzioni non disponibili normalmente o rielaborare idee che sono sempre state considerate ovvie.
L’ipnosi ericksoniana, in particolare, permette l’uso dell’ ipnosi in modo creativo, come particolare situazione comunicativa relazionale dove si parla a quella parte della mente specializzata nella elaborazione olistica delle info; i suggerimenti proposti dal terapeuta possono stimolare la ricerca transderivazionale, cioè un processo associativo tra uno stimolo nuovo e le proprie esperienze immagazzinate in memoria, per originare potenziali soluzioni per il raggiungimento dell’obiettivo terapeutico.
Bibliografia
- E. Molinari-G. Castelnuovo, Psicologia clinica del dolore, Springer, Milano, 2010
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