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Cosa vuol dire comunicare
Ormai anche i non esperti sapranno che la comunicazione può essere distinta in verbale e non verbale. Pare che il messaggio verbale influenzi la comunicazione solo per il 20% mentre il restante 80% è appannaggio della comunicazione non verbale, che guarda caso è la prima che il bambino impara.
Il non verbale è possibile grazie alla spinta propulsiva delle emozioni, che non possono essere soffocate, perché prima o poi, in qualche modo escono. Comunicare diventa vero ed efficace nel momento in cui, attraverso il mio “non verbale”, mi avvicino al mondo emozionale dell’altro.
Comunicazione: cosa la ostacola e cosa la favorisce
Ci sono alcuni comportamenti che intralciano l’accesso al mondo emozionale dell’altro e costituiscono dei veri e propri ostacoli del comunicare.
Alcuni di questi risultano immediatamente ed inconfutabilmente bloccanti, si pensi a quei comportamenti che tendono a “giudicare, criticare e opporsi” oppure a quando si arriva a “etichettare, ridicolizzare, umiliare” o ancora quando si tende a “inquisire, far domande, indagare”. Altri comportamenti invece, come “consigliare, offrire soluzioni, istruire, argomentare”, oppure “minimizzare, rassicurare, simpatizzare” vengono attuati con buone intenzioni, ma spesso non sortiscono l’effetto desiderato.
Probabilmente il genitore che legge queste righe sarà assalito da un senso di smarrimento e si starà domandando: “insomma, con i figli come si deve fare?”. Questa risulta una domanda più che legittima, perché anche i comportamenti apparentemente positivi, come “consigliare, offrire soluzioni, persuadere con la ragione”, spesso possono diventare ostacoli al dialogo.
Un esempio pratico: la mamma di Giada
Giada: non voglio cenare stasera
Mamma: dai vieni. Lo sai che poi tra un’ora poi ti viene fame (esortare). Poi lo sai che saltare i pasti ti fa male (istruire, persuadere con la ragione).
Giada: ho mangiato tanto a pranzo, sono a posto.
Mamma: perché non vieni lo stesso a tavola? Io almeno assaggerei qualcosa (consigliare, proponendosi di esempio).
Giada: No, sono sicura che anche se vengo non mangio niente.
La madre vorrebbe veramente essere d’aiuto alla figlia e ci prova in vari modi, ma non riesce a smuoverla. Passa dall’esortare, al persuaderla con la ragione, fino a consigliarla proponendole un comportamento da attuare. Ma questa strategia non funziona, perché la figlia continua a non voler cenare, anzi tende a rispondere riducendo sempre più lo spazio di dialogo nel tentativo di sfuggire all’incalzare delle richieste della mamma.
Vediamo come sarebbe potuta andare la comunicazione tra Giada e la mamma.
Giada: non voglio cenare stasera.
Mamma: non hai proprio fame? (ascolto attivo, la guarda negli occhi e con questa domanda cerca di capire in modo autentico se davvero non ha fame, in cui la domanda implicita è “perché?”)
Giada: No, ho lo stomaco chiuso oggi.
Mamma: Ho capito, c’è qualcosa che ti ha chiuso lo stomaco (attraverso la ripetizione delle parole della figlia mostra di riconoscere cosa le è stato appena detto, non squalifica le parole della figlia, ma la sta prendendo sul serio, le dice che la capisce e che quindi è pronta ad ascoltare altro, senza invadere con domande inquisitorie, sarà poi Giada, che se vorrà potrà arricchire il suo racconto).
Giada: Sì, oggi ho litigato con Samantha…
Possiamo qui vedere come la madre, con tatto e prudenza, ponendo attenzione alle reazioni della figlia entra a piccoli passi nel suo mondo emozionale. Riesce ad entrarci grazie alla sua modalità di ascolto attivo, senza fretta di sapere o risolvere.
L’ascolto attivo deve avvenire in modo autentico, senza forzature o scimmiottamenti, perché l’altro se ne accorgerà e il nostro pseudo-interessamento, apparirebbe poco empatico e nient’altro che una forma surrogata di invadenza psicologica.
Queste riflessioni portano a maturare la convinzione che per comunicare in modo efficace è fondamentale passare attraverso le emozioni.
Approfondimenti
- Gordon T., Genitori efficaci, La meridiana, 2007
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